L’Incappucciato

 In parlano i ragazzi

E’ facile ignorare chi se ne sta confinato volontariamente al fondo dell’aula, col cappuccio calato sulla testa, come un elmo, e solo la musica delle cuffiette a fargli da scudo. Il nemico, forse lui non sa nemmeno chi sia: il professore, che lo guarda dall’alto della cattedra e lo biasima? I compagni, che non sanno come avvicinarsi alla sua rocca di ghiaccio? La scuola, imperfetta e nozionistica, che pretende d’insegnarti come vivere, ma che nella pratica ti lascia morire? O i genitori, che corrono sempre dietro alle lancette di un orologio e si prostrano di fronte a troppa fatica? Forse il quartiere, che ti risucchia come un buco nero, che ti affoga nei suoi vicoli e nei suoi “misteri”, quelli che tutti conoscono ma che fingono di non sapere. Allora è stato lo Stato! Ma chi è lo Stato? Io non lo conosco.
Dicevo, è facile ignorare tipi così. Più che facile, è comodo. Tu, prof, stai bene così. Ma lì, in quell’angolo un po’ più buio del resto della classe, forse si soffre un la paura: quando ti siedi lì, il futuro ti sembra prerogativa di chi, invece, sta al primo banco a prendere appunti, e la campanella appare come l’unica via di salvezza, l’angelo liberatore che ti guiderà fuori dalle quattro mura della prigione che ti propinano spacciandola per il luogo in cui “la tua mente si aprirà”.
Stronzate. All’ultimo banco, la mente si ripiega in se stessa, si contorce, s’inabissa, si dispera. Urla, l’Incappucciato, ma chi lo sente? E’ molto più semplice concentrarsi sulla lezione, sull’interrogazione impeccabile del primo della classe, sui segni che il gesso lascia sulla lavagna: il problema è che quelle linee bianche il giorno dopo (o forse a distanza di qualche settimana, dipende quanta voglia di fare avrà il bidello) saranno cancellate, ma per eliminare i solchi che l’emarginazione e l’incuria lasciano nell’anima di un ragazzo e nella sua coscienza da adulto non basta un colpo di spugna.
Ricreazione, scappa fuori. Fuma una sigaretta, forse una canna, perché dice che così si sfoga, così non ci pensa. Oltre che una pausa dall’orario scolastico, quindi, l’Invisibile si prende una pausa dai suoi pensieri.
Rientrare non è mai quello che vorrebbe, gli sembra di rubare tempo al suo lavoro in officina, che lo aspetta nel pomeriggio: fanculo i compiti, quelli mica ti danno da vivere… o da fumare. Ricade pesantemente sulla sedia scricchiolante, gli occhi fissi su un uomo in croce da cui non si sente né rappresentato, né protetto: ma anche lui è stato inchiodato, a suo tempo. In croce, l’Incappucciato si sente in croce. Bersaglio facile, ma già colpito: pochi si divertono a sparare sulla Croce Rossa, e chi lo fa è un criminale. “Beh, se così fosse – pensa – in carcere ne avrei mandati tanti”.
Si apre la porta, la classe tace. Entra uno alto, con gli occhiali come schermi TV, barbuto e con in mano un casco. Lo appoggia sulla cattedra con cura, sistema la giacca sullo schienale e si accomoda. Poi sta zitto.
Anche ai margini, quel tizio suscita curiosità: perché non parla, che sta facendo? Tutti si sentono osservati, e di fatto lo sono. Un quarto d’ora se n’è andato, e ormai nella stanza non si muove più una mosca, tutti trattengono il fiato. A questo punto, il Barbuto s’alza, scavalca e, finalmente, dice qualcosa: “Sono il vostro nuovo professore di Filosofia, ciao a tutti!”.
Quella secchiona di E. alza la mano: “Siamo arrivati a Kant, La Critica della Ragion Pratica”.
Il professore storce il capo, la studia un po’ e poi le sorride: “Come ti chiami?”, le domanda. Lei risponde che si chiama E., ed appare visibilmente imbarazzata.
“Bene, E. . Ti ringrazio.”
“Si figuri! Invece, il prossimo argomento che dovremo affrontare è…”
“No, non hai capito! – ride il Barbuto – Ti ringrazio perché hai condiviso con me il tuo nome, una parte fondamentale della tua identità. Non m’interessa il programma, quello è secondario. Sapete, io vengo pagato per insegnarvi l’amore per il sapere, per la
conoscenza. Ma come potrei spiegarvi cose tanto complesse, se prima non sapeste chi siete voi? Cominciamo, quindi, la nostra prima lezione.”
Tutti prendono il quaderno, tutti tranne l’Incappucciato, s’intende.
Il prof se ne accorge e lo aspetta (in vano). Poi riprende: “Il nome ed il cognome danno informazioni su chi siete: il primo vi parla del vostro presente, del tempo e dello spazio in cui vivete, il secondo del passato, delle vostre radici. Il nome ve lo hanno scelto i vostri genitori, no? Quindi voi, in parte, siete anche chi la vostra famiglia ha voluto che voi foste. Però non tutto dipende da questo, o sbaglio? Ogni giorno, fate scelte, grandi e piccole, che determinano chi, per esempio, sia E., o chi sono io: sono le decisioni che ci permettono di rapportarci con gli altri, ma soprattutto di rapportarci con noi stessi.”
“Ah, quindi Lei intende la rivoluzione copernicana tra soggetto ed oggetto di cui Kant scrive nella Critica della Ragion pura!”, esclama E., certa di aver colto il senso del discorso.
“Temo di doverti deludere ancora, non parlo a nome di Kant. Queste riflessioni nascono dal mio incontro con voi, niente di più. Però, ho dimenticato di parlarvi di un ultimo fattore. C’è qualcos’altro che vi contraddistingue: vediamo… tu, all’ultimo banco! Sì, tu con le cuffie. Via l’mp3, devo chiederti una cosa!”.
Che? Deve chiedere qualcosa all’Incappucciato? I ragazzi ridono, quello non sa mai niente. Lui, poco abituato ad interloquire con chicchessia, soprattutto a scuola, è un po’ stupito, ma non si scompone. Alza lo sguardo, ed aspetta.
“Identificati”.
“E.D.”.
“Non basta.”
“Che vuole sapere?”, chiede, impaziente.
“Qualcosa di te: come sei?”.
Ci riflette un attimo su, la risposta affiora alle labbra come l’acqua di un fiume che, dopo anni di secca, sta per straripare: “Solo”.
E’ la prima volta che l’Incappucciato risponde alla domanda di un insegnante. Tutti aspettano la correzione del docente, che non si fa attendere, ed arriva con una dolcezza inaspettata: “Sbagliato, tu non sei solo. Sei unico”.
Silenzio tombale: diverse paia di occhi fissano sgranati l’insegnante, altri ondeggiano tra lui e l’Incappucciato.
“Non credo, professore.”
“Io invece lo credo. Tutti voi siete unici e, modestamente, lo sono anch’io. E proprio questo è ciò che fa di noi chi realmente siamo: la nostra unicità. Nessuno è uguale ad un altro, e se qualcuno lo fosse, questo sarebbe un grave problema: il mondo morirebbe, perché la diversità è ciò che lo tiene in moto. La scuola di oggi, perciò, non va bene: per la signorina E., per esempio, andrà benissimo studiare Kant, Fichte ed Hegel, ma che mi dite di ED.? Perché dovrei costringerlo a ficcarsi in testa roba di cui non gl’importa niente, quando tutto ciò che lui vorrebbe è dare un senso alla sua vita? Non sarà di certo l’idealismo tedesco ad illuminargli la via: più probabilmente, lui dovrebbe cercarla dentro sé, ed il mio compito, in quanto professore, sarà fargli da guida. Questo discorso è valido per ognuno di voi: nessuno ha bisogno di seguire lo stesso percorso dell’altro, perché esistono strade lunghe e brevi, scorciatoie e navigatori satellitari. Quello che conta, però, è che ciascuno di voi arrivi alla SUA meta, non quella che un Ministero distante ha scelto per voi. Spero di potervi portare tutti dove meritate.”
Non appena il Barbuto finisce di pronunciare queste parole, la campana suona di nuovo.
Cacofonia di banchi e sedie spostati frettolosamente, urla, sussurri e risate.
L’Incappucciato si sveglia. Non è cambiato assolutamente niente. Era tutto un sogno. Guarda fuori dalla finestra: sempre la solita Palermo, sempre la solita città dimenticata e che si dimentica dei suoi figli.
Quando l’allarme elettronico smette di rantolare, la porta si apre. Entra uno alto, con gli occhiali come schermi TV, barbuto e con in mano un casco. Lo appoggia sulla cattedra con cura, sistema la giacca sullo schienale e si accomoda. Poi sta zitto.

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